Ogni tanto i quotidiani rilanciano qualche ricerca, possibilmente condotta in prestigiosi atenei statunitensi, con titoli acchiappa-click tipo: “Scoperto il segreto del cemento romano!”. Le teorie sono per lo più concentrate sulla ricetta dell’opus caementicium, in particolare sulla fattura dei muri romani. Muri che, per esempio, sembrano di mattoni ma che di mattoni hanno solo i due paramenti: all’interno nascondono una farcitura di un composto di calce, sabbia, scapoli di pietra o di laterizio, acqua e pozzolana. Muri resistentissimi di cui si trovano ancora oggi molti resti non solo a Roma o in Italia ma anche nel resto d’Europa e sulle coste del Mediterraneo. L’opus caementicium è stato utilizzato dai Romani per costruire le loro opere più importanti, fino alla caduta dell’impero d’Occidente. Poi non sappiamo bene cosa sia successo: certo è che dopo pochi secoli, nessuno era più in grado di costruire impasti resistenti come quelli romani. Alla metà del Settecento, quando lo spirito illuminista pervade tutta la voglia di conoscenza, si avviano studi rigorosi sulla composizione dei muri romani. Dell’opus caementicium aveva scritto Marco Vitruvio Pollione, la prima importante fonte della storia mondiale della costruzione. Vitruvio, vissuto probabilmente tra l’epoca di Cesare e quella di Augusto, scrive dieci libri, che intitola De Architectura: a più riprese, aggiungendo capitoli e paragrafi in tempi successivi, ma che gli studiosi datano intorno al 30 a.C., quindi prima del Colosseo, del Pantheon o della Basilica di Massenzio, di cui infatti non parlano. Riscoperti e stampati già nel 1486, molto diffusi nelle biblioteche europee, non chiarivano perfettamente la ricetta. Anzi, Vitruvio era molto scettico su questa tecnica, che riteneva un espediente dei costruttori che cercano così “di fare in fretta”, generando muri quindi non solidi come quelli tradizionali di pietra. Ma evidentemente si sbagliava! Nel Settecento il mistero della resistenza nel tempo delle costruzioni romane in opus caementicium era dunque tema di grande interesse, tutto da indagare. Tra gli scienziati illuministi le teorie si susseguono. La più diffusa presumeva che i Romani aggiungessero all’impasto calce viva (con potere espansivo e quindi impermeabilizzante e “autoriparante”): aggiunta più o meno consapevole, forse solo esito del cattivo spegnimento della calce a causa della velocità con cui lavoravano, che li rendeva voraci di questo materiale (e quindi impazienti). Poi, nella seconda metà del Settecento, si comprende il ruolo chiave dell’argilla per il comportamento idraulico ma la scoperta non ha la meritata diffusione. Solo nel 1824 l’inglese Joseph Aspidin brevetta un legante di colore grigio simile a quello della pietra di Portland, mescolando artificialmente calcare e argilla: il moderno cemento, il “cemento Portland”, che si diffonde prima in Inghilterra e poi ovunque nel mondo. Contemporaneamente anche il francese Vicat studia una tecnica simile ma non la brevetta per favorirne l’ampia diffusione. Ormai la strada è tracciata. Anche in Italia nel 1863 a Bergamo si scopre un giacimento naturale di calcare argilloso adatto alla produzione di cemento idraulico, chiamato ancora per un bel po’ “romano”. Dal brevetto Portland in poi, non interessa più a nessuno scoprire il segreto dell’opus caementicium romano perché il nuovo materiale è molto più “forte” di quello degli antichi. Perché oggi si torna a parlarne? Per altro, di recente, riproponendo la questione della calce viva, senza troppa fantasia? È l’ambizione di inventare un materiale più sostenibile. Ma come spiega bene Norman Foster e molti come lui che hanno preso sul serio e senza preconcetti il tema della non sostituibilità del cemento moderno, la questione non è solo quanto sostenibile è il processo produttivo di un materiale ma anche: quanto occorre consumarne per ottenere lo stesso risultato? Da quanto distante occorre trasportarlo? Quanto resiste nel tempo? Quanto è adatto a resistere ai terremoti o alle alluvioni? Di quanto “rivestimento” ha bisogno per essere esteticamente presentabile, energeticamente passivo e a basso costo di manutenzione? Il cemento resta un materiale senza alternative in molti campi: invece di pensare di sostituirlo, occorre lavorare insieme per trovare rapidamente soluzioni per la transizione Net Zero.
Cemento romano vs cemento del futuro
Di Tullia Iori
Professore Ordinario presso la Macroarea di Ingegneria dell'Università degli studi di Roma Tor Vergata e Direttore Scientifico della rivista. Dal 1994 conduce le sue ricerche indagando la storia della costruzione e dell'ingegneria strutturale, con particolare riferimento alle applicazioni relative alla conservazione. Dal 2012 è co-Principal Investigator nel progetto SIXXI dedicato alla Storia dell'ingegneria strutturale italiana e guida il lavoro del gruppo di giovani ricercatori coinvolti. Autrice di numerose pubblicazioni sulla storia delle costruzioni, ha curato diverse mostre sul tema dell'ingegneria strutturale italiana.
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