La lunga vita del cemento

La copertina di questo numero – e la bellissima illustrazione di controcopertina di H501 – sono un omaggio a un’opera iconica di Milano: la Torre Velasca, costruita nell’immediato dopoguerra su un’area gravemente danneggiata dai bombardamenti, che subito diventa parte fondamentale dello skyline urbano insieme al Duomo, poi al Pirelli e oggi ai tanti grattacieli moderni, che ha profondamente influenzato.

A descrivere la torre su questa rivista nel 1958 era stato Giuseppe Golinelli, il direttore generale della società che l’aveva costruita e che, orgoglioso della sua creatura, auspicava che fosse di ispirazione per altri edifici. (All’epoca la rivista era essenziale e sobria, come richiedeva il clima della ricostruzione, con una semplice copertina tipografica: sotto al titolo, formattato su tre righe, spiccava però il pacchetto, in corpo piccolo, del superbalsonato comitato di redazione che comprendeva, tra i primi, Gustavo Colonnetti, Arturo Danusso e Aristide Giannelli, grandi scienziati delle costruzioni.)

Al momento di quella pubblicazione, la torre era già diventata il simbolo della soluzione italiana all’edificio alto. Quando nel 1950 i BBPR cominciano a progettarla, infatti, hanno in mente un grattacielo di acciaio all’americana, ma dopo molti studi e consulenze, adottano la soluzione a telaio in cemento armato, proprio come rifiuto al modello standard tipico dell’International style. E il grattacielo all’italiana in cemento armato, di forma compiuta e senza griglie architettonicamente vincolanti, si è così radicato nella storia costruttiva del Paese che ancora oggi, per il grattacielo Unicredit, o per quelli di City Life ma anche per il Bosco verticale, si è scelto il versatile, plasmabile, adattabile cemento capace di arricchirsi in resistenza quasi punto per punto.

Ma non è solo per questo ruolo storico che la torre si è meritata la copertina, oggi che un attento restauro ha restituito alle sue belle facciate in cemento granigliato, composto da frammenti di klinker rosso e giallo, la “calda tonalità di tramonto romano” ricercata dai progettisti in origine.

Nel mondo contemporaneo, le nuove generazioni chiedono una forte riduzione del consumo di suolo (da noi qualche giornalista boomer ancora usa l’impropria parola “cementificazione”, rilanciando l’ideologia fascista anti-cemento: suggerisco di aggiornarsi e, se le espressioni tecniche sono troppo difficili, adottare la parola inglese “overbuilding”). I ragazzi ambiscono, con l’ingenuità di chi magari già vive in una casa solida e attrezzata, di passare direttamente all’Unbuilding: anche per loro, però, questo recupero integrale della torre prende un significato profondamente positivo. Dice, infatti, l’esperto di sostenibilità Carl Elefante: “The greenest building is… one that is already built”.

E poi, per chi farnetica sulla vita utile del cemento armato, questa torre – completata nel 1957 – è un bel monito. Se ci fosse stato anche solo un dubbio sulla sua stabilità, sulla durabilità del cemento armato, sulla sua riserva di resistenza, niente (nemmeno il vincolo apposto dalla Soprintendenza nel 2012) l’avrebbe salvata dalla demolizione e magari al suo posto sarebbe sorto un altro grattacielo progettato da qualche archistar internazionale a caso. E invece le indagini, soprattutto quelle dei solai più delicati, hanno rivelato un quadro fessurativo irrisorio. Solo per rispettare perfettamente le più stringenti normative antisismiche attuali, si è deciso per il solaio P18 – teso dai puntoni che si allargano per consentire l’espansione superiore – un rinforzo con fibre di carbonio, in modo del tutto invisibile, seguendo fedelmente il tracciato delle armature preesistenti.

Insomma, Danusso sarebbe ben soddisfatto della sua torre calcolata a mano e con l’ausilio di modelli fisici testati nel suo ISMES (e sarebbe anche contento che a guidare l’intervento di recupero sia stato il nipote – con la pronipote – di quel Bruno collega al Politecnico di Milano, cui si rivolgeva spesso per tutti i dubbi matematici). Proprio grazie al minimo ingombro della struttura originale, è stato possibile un totale riuso e riadattamento distributivo (soluzione – insisto – molto più sostenibile del riciclo dei materiali della demolizione).

E anche chi ha fornito il cemento per la costruzione non può che essere contento della conservazione della torre: il materiale invecchia bene, e sembra ben più giovane dell’età anagrafica. E allora, ancora lunga vita al cemento!

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