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La storia di una rivista italiana

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Testo di Tullia Iori e Laura Negri

Il cemento ha accompagnato il processo di modernizzazione dell’Italia nel Novecento. E la rivista L’industria italiana del Cemento ne ha raccontato tutto il percorso. Sfogliarla oggi, a partire dai suoi primi numeri, significa ripercorrere la storia del Paese, con i suoi successi e le sue crisi. E una copertina dietro l’altra, ritrovare le opere più amate, vere e proprie icone del Made in Italy.

— La rivista mensile L’industria italiana del Cemento nasce nel dicembre del 1929. Sin dalle prime uscite è chiaro che non intende parlare di problemi industriali, di forni, di miniere, di cave, di impianti: il suo obiettivo è promuovere l’uso del materiale, favorirne la diffusione. E vuole farlo mostrando le opere costruite: il successo del ponte, della cupola, del grattacielo, dell’edificio di cemento è evidentemente merito del materiale.
Questa è la strategia: nessuna teoria ma la struttura realizzata a dimostrare le reali, indiscutibili potenzialità del prodotto. Quale migliore pubblicità di un’opera bellissima che parla da sola?

Come mai però serve un organo ufficiale di promozione del materiale?
Quando la rivista nasce sono tempi bui: sono passati sette anni dalla marcia su Roma, si avvia l’ottavo anno dell’era fascista, nella ridicola scansione del tempo voluta da Mussolini, e da oltre oceano arrivano gli echi di una crisi economica globale. Il 27 aprile 1927 è intanto approvata la Carta del Lavoro con la dottrina del corporativismo e della politica economica fascista, che pretende di eliminare la lotta di classe grazie alla collaborazione tra datori di lavoro e lavoratori in nome della potenza della Nazione. È firmata da tutti, non c’è modo di obiettare: anche dalla Federazione Nazionale fascista dell’industria del Cemento, Calce e Gesso, che sostituisce la Federazione Produttori Cemento nata nel 1919.
A maggio del 1929 la Federazione decide di fondare la SIAC, la Società Incremento Applicazioni Cemento, dichiarato strumento di propaganda che prende l’iniziativa di realizzare la rivista.

Nell’editoriale del primo numero, si spiega l’esigenza della pubblicazione: alla millenaria esperienza di altri materiali, il cemento non può opporre che alcuni decenni di vita. E c’è ancora qualcuno «che non sa perdonare al materiale la sua giovinezza … che chiude gli occhi di fronte a mirabili applicazioni lamentando che non abbiano secoli di vita».
Il regime, infatti, non ama il cemento: preferisce altri materiali, come il laterizio, la pietra e il marmo. Mussolini ha presto rinnegato i giovani architetti del razionalismo, che vorrebbero rinnovare il linguaggio grazie al cemento armato, come sta succedendo nel Movimento moderno in tutto il resto del mondo. Concede loro inizialmente qualche spazio in edifici minori nelle periferie o nelle province ma poi rapidamente il suo interesse passa a materiali ritenuti più nobili dalla retorica fascista: quelli della tradizione romana antica. È il suo “ministro dell’architettura” Marcello Piacentini a definire la giusta ricetta “littoria” per combinare mattoni e travertino, usandoli come cucitura negli sventramenti nei centri storici di tutta Italia.

Le antipatie per il cemento peggiorano durante la fase dell’autarchia. All’invasione dell’Etiopia nel 1935 e alle conseguenti sanzioni della Società delle Nazioni, l’Italia è chiamata dal fascismo a reagire con la politica dell’autosufficienza. È ormai noto che le sanzioni hanno avuto effetti reali circoscritti grazie alla durata limitata: il regime ne ha fatto però uno strumento propagandistico assai potente, insperato, di presa sulle masse. Per limitare l’esodo di oro, rimasto l’unica ‘moneta’ internazionale con cui avere scambi commerciali con l’estero, il consueto approccio agli investimenti è stravolto: non si mira a ridurre al minimo la spesa ma piuttosto il costo in oro.
A finire sotto processo è proprio il cemento armato: le prove dell’accusa sono destituite di ogni fondamento tant’è vero che molti esperti chiamati in causa valutano che il suo costo in oro è inferiore non solo, ovviamente, alle strutture metalliche, ma anche alla muratura portante.

Ben dopo la fine delle sanzioni, nel novembre del 1937 sono però emanate le prime disposizioni restrittive, rafforzate poi nel febbraio del 1938: le case devono essere realizzate esclusivamente con muratura portante.
Nel settembre del 1939, l’uso del cemento armato è vietato in tutti gli edifici e nelle opere pubbliche (e qualche eccezione necessaria va rigorosamente tenuta nascosta). La condanna è definitiva e senza appello e durerà fino alla fine della guerra.

I primi dieci anni della rivista si consumano così: nel tentativo di valorizzare un materiale inviso al potere. Lo sforzo inutile vede coinvolti produttori e scienziati, tra cui prestigiosi esponenti della Scuola italiana di Ingegneria, da Arturo Danusso a Luigi Santarella, entrambi nel Comitato di redazione. Non valgono i tentativi di arruffianarsi Mussolini: come inserire la sua foto autografata nel fascicolo speciale del settembre 1930 che è offerto in omaggio ai relatori del “I Congresso del cemento e del cemento armato” tenutosi a Liegi; o invitarlo a visionare la prova su un paio di chilometri di “strada guidata” in cemento, avveniristica monorotaia costruita nella tenuta di Piero Fogaccia, primo direttore della rivista e in carica fino al 1940.

Con sempre meno pagine, con la carta che si fa sottile e opaca, a numeri annui dimezzati, la rivista a stento arriva a dicembre del 1943 e con l’occupazione nazista, rifiutando coinvolgimenti con l’invasore tedesco, sospende le pubblicazioni.

Le riprenderà nel settembre del 1946: tempi di ricostruzione, che la rivista documenta con attenzione. Le migliaia di ponti distrutti da ricostruire, le nuove case per la popolazione sfollata che rientra nelle città, gli stabilimenti da far ripartire: è un lavoro enorme, compiuto grazie al cemento e che le pagine della rivista raccontano per filo e per segno.

Il precompresso e le promesse della prefabbricazione divengono i nuovi temi del racconto dell’Italia che rinasce. Poi arriva il boom.
E allora basta scorrere gli indici della rivista per accorgersi del livello raggiunto dalla Scuola italiana di Ingegneria, proprio grazie alle opere in cemento. Molti articoli sono dedicati a illustrare le prime tratte autostradali come la Genova-Savona e la Napoli-Pompei-Salerno: poi comincia l’avventura epica dell’Autostrada del Sole, i cui viadotti principali sono presenti nei numeri prima e dopo l’inaugurazione del 1964.

I numeri di ottobre e novembre del 1960 sono dedicati alle tante opere costruite per le Olimpiadi di Roma, tra cui le memorabili strutture di Pier Luigi Nervi.
Tanta è la bellezza delle opere dell’ingegneria italiana che anche la rivista si adegua: triplica la tiratura, le pagine diventano mille l’anno. Anche la produzione di cemento d’altro canto aumenta vertiginosamente.

A gennaio del 1961 la copertina diventa finalmente illustrata (un tentativo in questa direzione era stato fatto anche durante la fase critica dell’autarchia incollando una fotografia in bianco e nero su ogni copia, una per una).
La prima copertina a colori è destinata al ponte sull’Aglio nel tratto transappenninico dell’Autosole.
Poi in questa posizione d’onore compare la prima sopraelevata di Milano, progettata da Silvano Zorzi; una diga di Claudio Marcello, realizzata secondo i suoi brevetti; il palazzo delle Mostre di Franco Levi e la monorotaia di Riccardo Morandi per le celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, a Torino; l’arco da record del viadotto della Fiumarella a Catanzaro e tanti altri successi: le dodici copertine del 1961 sembrano non bastare per documentare quello che sta succedendo nel settore delle opere pubbliche.
E la rivista contribuisce alla fama dell’ingegneria italiana anche fuori dai confini nazionali,

se è vero che le riviste tecniche spagnole e francesi spesso attingono dai suoi fascicoli per proporre ai loro lettori visioni inedite dall’Italia.
Quando nel gennaio del 1967 Gaetano Bologna, che dal 1962 ha preso in mano la rivista, fa una sintesi dei suoi primi cinque anni di direzione, propone una copertina di copertine, proprio perché il collage da solo illustra efficacemente i successi di quegli anni. Ma il boom è già finito. E la rivista racconta ancora una volta i cambiamenti.

Negli anni che seguono è sempre più difficile parlare di opere italiane: si pubblicano i risultati degli italiani all’estero, dove per esempio Nervi ha spostato la sua attività quando ha capito che la crisi compromette ormai gli investimenti nazionali nelle opere pubbliche.
Ma un po’ alla volta anche questo sguardo fuori dai confini si esaurisce: l’Italia con le sue imprese piccolissime non è competitiva e quando lavora si arrende a stili e soluzioni internazionali, senza identità.

Le copertine dedicate ancora alle opere di Nervi, Morandi, Zorzi e di Sergio Musmeci – il viadotto sul Polcevera a dicembre del 1967, l’aula delle udienze pontificie a dicembre del 1973, il ponte sul Basento a febbraio del 1977 solo per citare i capolavori più noti – si alternano a opere di progettisti stranieri, per altro non memorabili.

Poi quando i grandi maestri del miracolo scompaiono, nessuno prende il loro posto. Cambiano troppe cose nel mondo del lavoro e delle imprese. Scompaiono le “lucciole”, dice Pier Paolo Pasolini e questo vale per l’Italia in generale.

Nelle costruzioni molta colpa è dell’università, diventata di “massa”. Finalmente aperta a tutti e non solo alle classi più agiate, non sa adeguarsi al necessario cambiamento di dimensione e sposta il cuore dell’insegnamento dal progetto verso la normativa, i regolamenti e il calcolo automatico, determinando la perdita di innovazione nella concezione delle strutture.

I fascicoli speciali, pubblicati in occasione dei cinquanta anni della rivista, rendono ancora più spietato il confronto con il passato ed evidente la crisi che coinvolge il Paese: ai numeri sul progresso del cemento armato seguono tristemente quelli dedicati al gravissimo terremoto dell’Irpinia.

Un lustro dopo l’altro i numeri speciali che raccolgono i successi ormai trascorsi in Italia si ripetono: nel 2000 il nuovo direttore, Domenico Mirone, celebra Il Secolo del cemento con un volume a parte.

Si continua a fare tanta ricerca industriale, in campi di avanguardia, ma mancano i progettisti italiani capaci di promuovere l’innovazione. Il campo è lasciato, anche sul nostro territorio, agli stranieri: Richard Meier con la chiesa del Millennio, Zaha Hadid con il MAXXI e tanti altri li seguono.

Queste ultime opere trovano spazio sulla rivista ma con il numero di aprile del 2009 le pubblicazioni si interrompono, complice la crisi mondiale che colpisce prioritariamente il comparto delle costruzioni (un numero speciale, l’854, di sintesi dell’attività italiana degli anni precedenti uscirà isolato nell’aprile del 2010 in occasione del terzo “Congresso Fib a Washington”).

Negli anni successivi la concorrenza globale ha giovato ai nostri progettisti e anche alle nostre imprese, che si sono impegnate con materiali nuovi e attenzione alla sostenibilità.
E se oggi ripartiamo con la rivista è perché si sente il bisogno di raccontarlo, a tutti, questo nuovo bellissimo clima di rinascita che coinvolge anche il cemento.

Professore Ordinario presso la Macroarea di Ingegneria dell'Università degli studi di Roma Tor Vergata e Direttore Scientifico della rivista. Dal 1994 conduce le sue ricerche indagando la storia della costruzione e dell'ingegneria strutturale, con particolare riferimento alle applicazioni relative alla conservazione. Dal 2012 è co-Principal Investigator nel progetto SIXXI dedicato alla Storia dell'ingegneria strutturale italiana e guida il lavoro del gruppo di giovani ricercatori coinvolti. Autrice di numerose pubblicazioni sulla storia delle costruzioni, ha curato diverse mostre sul tema dell'ingegneria strutturale italiana.

Tullia Iori

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